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Avsim, io e la Juve

Ha senso continuare a parlare di Juve?

 

Di Alessandro Krafft

 

Nel corso della mia consueta rassegna stampa mattutina, in cui ascolto e leggo diverse voci per farmi un’idea del vento che tira nel mondo Juventus, sono incappato nel video di Avsim a commento delle parole del Mister dopo la partita. Il minutaggio è leggermente inferiore al solito, le dichiarazioni vengono liquidate piuttosto alla svelta e quello che stavolta ho sentito mio del video di Simone, e non faccio certo mistero del fatto che capita di frequente, è il secondo annuncio che ne occupa la prima parte. Il contenuto è più o meno questo: “se Allegri sarà confermato per la prossima stagione questo canale passerà al creare contenuti sul calcio a trecentosessanta gradi, con la Juventus a margine se e quando avrò la voglia di guardarne le partite.”

Chi scrive ha messo ormai da mesi di interessarsi alle partite della Juventus, commentando sul canale di LB tutto quello che c’è da commentare che non riguarda le azioni, i giocatori, le prestazioni (e dalla Continassa non ci hanno certo lasciato a secco da questo punto di vista); capite dunque che in un coming out di questo tipo è stato facile identificarmi. Non posso dire di aver perso qualsiasi interesse per la causa bianconera, d’altronde non sarei qui a scrivere se mi sentissi del tutto indifferente, ma sento anche io, come il povero Avsim, di aver bisogno di una pausa dalla Juventus e certamente di una rottura definitiva da tutto quello che vi ruota attorno. Se insomma il distacco dal calcio giocato allo Stadium è già avvenuto da un pezzo – eventualità che sarebbe suonata blasfema al me stesso di appena 24 mesi fa – la necessità è di uscire anche dal circolo di discussioni su quello che avviene attorno alla Juventus stessa, tra i tifosi, i giornalisti e gli influencer.

Ma torniamo al video di Avsim. Ahimè, ho catturato la parte dell’annuncio in questione e l’ho ripubblicata su Twitter. “Ecco, ecco come mi sento, ed è colpa vostra”, riflettendoci era questo lo scopo, il messaggio, “state facendo terra bruciata, c’è chi di far parte di questo carrozzone non ne ha più voglia”. Non lo avessi mai fatto! Le reazioni che sta ricevendo Simone, e io di riflesso, seppur prevedibili sono sinceramente sconfortanti. Ora, non ho più voglia di argomentare, di rispondere a tono, neanche di sfoderare finto indifferente sarcasmo, e prendo questo per un buon segno. Roberto Pavanello, scrittore noto per il suo capolavoro “meglio perdere con Pirlo che vincere con Sarri”, ha fomentato con un retweet esultante il visibilio del popolo juventino per la notizia che il Nemico, l’odiato stregone beneventano minaccia di ritirarsi, l’opinionista assertivo e controverso di iniziare a smettere di parlare, il dissidente di stracciare la tessera di partito. Ecco, parliamo di politica, perché questo è diventato il discorso attorno alla Juventus: se il tifo sportivo, soprattutto calcistico, è da sempre una questione identitaria esattamente come l’appartenenza politica, la dirigenza di Andrea Agnelli è riuscita nella titanica impresa di creare ulteriori professanti di una fede nella fede, un’ortodossia che non ammette eresia pena la liquidazione come uno che “tanto non ha mai creduto davvero”, che crede in un unico profeta e abbraccia indisturbata l’idolatria dimenticando la Causa originale. Ha reso la figura di un professionista inscindibile se non più importante della società a cui dovrebbe portare i risultati, ha fatto esultare clienti della società quando altri clienti si allontanano, tra gli insulti, scontenti dalla produttività di quel professionista. Ma è davvero così che reagiamo quando la nostra squadra del cuore diventa così poco empatica da allontanare i tifosi? Abbiamo smesso di curarci dell’interesse della Juventus quando c’è in ballo quello dell’allenatore?

I tifosi, credo, sono generalmente volubili e attaccati ai risultati. Per due mesi Pioli è stato sulla graticola quando sono mancate vittorie e prestanzioni, per la prima volta dopo più di tre anni di crescita continua del progetto. D’altronde capita anche che a Roma si faccia finta di ignorare l’elefante nella stanza di una squadra francamente inguardabile, in una luna di miele perenne con l’allenatore dal passato glorioso vissuto come un Zarathustra che discende dalla montagna a fare dono della sua sapienza – e d’altronde a Napoli hanno la loro percentuale vedove di Ancelotti il Vincente, contrapposto al ricordo di Sarri il Mangiamozziconi. C’è però qualcosa di più profondo radicato nella maggioranza del tifo bianconero che non ha a che fare con la bacheca piena dell’allenatore attuale. O meglio, la diversità è da cercare, credo, nella costante sindrome di accerchiamento con cui essa (la maggioranza) ha vissuto gli anni degli scudetti e specialmente gli ultimi, quelli del confronto quasi ideologico con il Napoli di Sarri: da una parte gli azzurri, che più di tutti hanno incarnato il senso della parola valorizzazione, in grado di competere nonostante lo scarno organico societario, l’inesistente business plan per rendere la N un “marchio globale” e le sessioni di mercato i cui colpi più roboanti sono stati quelli in uscita; e di farlo attraverso prestazioni che hanno toccato le corde di chiunque sia appassionato di questo sport. Dall’altra, beh, la Juventus, che ha messo in campo la sua proprietà e le risorse di chi è in grado di mettere a disposizione del proprio allenatore decine di milioni di euro per i migliori giocatori in circolazione, vincendo quasi “per forza di cose”. Il che ci porta al discorso arbitrale, non plus ultra di qualsiasi tentativo di delegittimazione delle vittorie altrui. Perché vincere non è importante, il riconoscimento plebiscitario è l’unica cosa che conta, e quella Juventus non lo aveva. Il “merito” – prego di dare per buona una definizione vaga di chi fa meglio date le condizioni di partenza – era di casa a Napoli, e a Napoli lo sanno, e probabilmente lo sanno anche molti più tifosi bianconeri di quanti siano disposti ad ammetterlo. Scacciare questo retropensiero autoconvincendosi che l’unica cosa che conta è il “musetto davanti” è il passo successivo. Ma, e questo è il punto cardine della faccenda, rimettere in prospettiva i meriti dell’allenatore non equivale a sminuire in nulla le vittorie della squadra che ha fatto per nove anni più punti delle altre senza se e senza ma. Le chiacchiere da bar sui cartellini mancanti, sugli alberghi fiorentini, l’aver vissuto per anni in trincea contro moviolisti e giornalisti polemici del lunedì: ecco le origini del culto dell’allenatore attuale, la cui intoccabilità è l’intoccabilità di quegli scudetti per cui il gobbo medio ha ricevuto, secondo lui, troppa poca considerazione; e discutere lui vuol dire uscire dal gregge, compatto a difendere la legittimità dei risultati, e uscire dal gregge vuol dire passare dalla parte di quelli là.

Non mi sono messo a scrivere per difendere Avsim e il suo canale, è in grado di farlo perfettamente da solo, né per annunciare partenze – so che non è un aeroporto, né per ribadire l’ovvio sul nostro mister. L’ho fatto in preda a una vaga tristezza, riflettendo sul fatto che della Juventus, quella che va in campo (ma vi ricordate di quando ci dicevamo che il campo è l’unico giudice di cui avremmo riconosciuto l’autorità? Bei tempi) nessuno parla più. Si litiga, ci si insulta, ci si prende virtualmente a cazzotti per quello che si dice sulla Juventus, attorno alla Juventus, fuori dalla Juventus, che questa squadra di cui fino a due anni fa non mi sarei perso una partita se non per poche cose al mondo è diventata un partito politico e nello specifico uno di quelli personalistici post prima Repubblica, in cui c’è un padrone con la sua schiera di tromboni e dipendenti. Lungi dal voler paragonare il povero Simone a un Gianfranco Fini, trovo deprimente l’allontanamento in atto, mio e di tanti altri, che sia più o meno silenzioso da una passione comune. Storpiando John Donne, nessun tifoso è un’isola. Chi ci tiene alla propria squadra dovrebbe ricordarsene


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